18/12/19

G.G. Belli e il cottio il 23-24 dicembre.


 Il cottio a Roma sparita era l'asta tradizionale del pesce, che si svolgeva  l'antivigilia di Natale
Si trattava di uno spettacolo di strada che costituiva un’attrattiva irresistibile per tutti, ricchi e poveri e per i  forestieri.
Il perchè del cenone di magro
La Vigilia di Natale, per la religione cattolica, è uno dei momenti più sacri dell’anno e l’antico divieto di mangiare carne costituisce ancora oggi un richiamo a consumare cibo alternativo . L'astinenza dalla carne imposta nella Vigilia di Natale è una forma di rispetto per la nascita del Messia: nel Medioevo erano ben 150 i giorni in cui la carne era bandita ed è proprio da questo periodo che deriva l'usanza ancora in voga oggi. 
Nei giorni di magro e, quindi, anche la Vigilia,  si dovrebbero mangiare solo cibi austeri, leggeri e poveri, come se si trattasse di un fioretto
Ma oggi spesso non è così!!!  Il 24 dicembre, di solito, si consumano ricchi e costosi piatti a base di pesce, una specie di "trucco" per aggirare i precetti religiosi che  la tradizione imporrebbe.
In passato la vigilia di Natale.
In particolare a Roma dove la Vigilia è sacra, non poteva mancare la minestra di pesce , la pasta con broccoli in brodo di arzilla, ovvero brodo di razza. Spesso si preparavano gli spaghetti “co’ l’alice” o con il tonno,il capitone, l’anguilla fritta con l’insalata di puntarelle e ovviamente la frutta secca.

Come detto, la tradizione romana imponeva che la cena della vigilia di Natale fosse a base di pesce e verdure e proprio per organizzare questo cenone si cominciava la vendita del pesce, il cosidetto cottìo (dal latino medievale coctigium) già dalle primis.sime ore del mattino del 23 dicembre fino a tutto il 24, o meglio fino alla vendita totale di tutto il pesce che proveniva da Anzio, Nettuno e Civitavecchia
Il cottiò anticipava uno tra gli appuntamenti a tavola più attesi del calendario religioso, quando sulle tavole opulente dei cardinali, dei monsignori, delle ricche famiglie romane, che popolano i sonetti di Belli, sfilavano anguille, pescetti marinati, brodo di pesce, pastasciutta al sugo di tonno e baccalà con pinoli e uvetta, con accompagnamento di mele e broccoli fritti in pastella.  E il pesce pregiato e freschissimo
Riviviamo questo momento grazie a G.G.Belli nel sonetto la Viggija de Natale:
 “...Mò entra un barilozzo de caviale […], 
poi l’oliva dorce, er pesce de Fojjano, l’oijo, 
er tonno e l’inguilla de Comacchio...”.
Tutt’altra sorte spettava alle classi meno abbienti, i popolani e gli indigenti,  pure loro però  tra la folla che già dalla mattina dell’antivigilia si muoveva frenetica tra i banchi del mercato del pesce del Portico d’Ottavia, cercando di spuntare l’offerta migliore per un pò di pesce. 

Alcuni piatti di magro.
Ecco un elenco dei piatti di magro romani, trovati nel volume "La cucina del Belli" di V. Metz.
Frittata di ranocchie, 
ranocchie fritte, 
cefaletti in graticola, 
merluzzo al gratè, 
ombrina al forno, 
triglie di scoglio al tegame,
cappone di galera, 
ciriole (cioè anguille) arrosto, 
stoccafisso allo stato pontifico, 
cotolette di baccala,
funghi e lumache trifolati, 
lumache alla romana, 
piselli con l'aneto, 
cicorietta con le alici, 
due uova al tegame.


Il cottivo secondo G.G. Belli
In un altro sonetto G.G. Belli descrive invece il  cottio ( o meglio cottivo) che il Poeta doveva conoscere bene..
Er cottivo
«È ffinito er cottivo?» «Ehée, da un pezzo». 
«Ggià, pprezzettacci?» «Ma de che! mma indove! 
Inzinenta, fratello, che nun piove, 
la pesca è mmosscia, e nun ribbassa er prezzo». 
«Sai c’hai da dí? cch’er popolo sc’è avvezzo. 
Ma ebbè ddunque, di’ ssú: ddamme le nòve». 
«Eh, ll’aliscette e la frittura a nnove: 
li merluzzi e le trijje a ddiesci e mmezzo: 
le linguattole e ’r rommo a ddu’ carlini: 
a un papetto la spigola e ’r dentale; 
e ssu sto tajjo l’antri pessci fini». 
«E, ddi’ un po’, lo sturione quanto vale?» 
«Ne sò vvenuti dua, ma ppiccinini, 
e ssò iti in rigalo a un Cardinale». 
11 gennaio 1845
[Versione. Il cottio. «E' finito il cottio?» « Ehèe, da un pezzo». 
«Già, prezzi bassi?   « Ma de che! ma dove ! Fintanto, fratello, che non piove, la pesca è fiacca, e il prezzo non si abbassa» 
« Sai ci hai da dire? il popolo c'è abituato ( ai prezzi alti).
 Ma allora dunque, dimmi su: damme le novità» « Eh, le alicette e la frittura a nove baiocchi: i merluzzi e le triglie a 10 e mezzo: le sogliole e il rombo a due carlini: la spigola e il dentice a un papetto; e su questo taglio gli altri pesci fini » «E dì un pò, lo storione a quanto va?».« Ne ho venduti due, ma piccoli, e sono in regalo a un Cardinale».]

L'asta del pesce.
La vendita si svolgeva in forma di asta secondo modalità tradizionali e con termini comprensibili solo ai cottiatori e ad alcuni acquirenti, quelli che erano venditori al minuto, gestori di trattorie, o i cuochi delle grandi famiglie romane. 
Sempre il poeta Belli  nel sonetto  sopra ci informa su alcuni dei prezzi del pesce:
..Eh, ll’aliscette e la frittura a nove, / Li merluzzi e le trije a diesci e mmezzo / Le linguettole e rrommo a ddù’ carlini, / A un papetto la spigola e r’dentale; / E su sto tajjo l’antri pesci fini...

Uno spettacolo..
L’atmosfera generale che si creava intorno a questa vendita trasformava il tutto in una sorta di “spettacolo” di strada  a cui assistevano non solo il popolino, ma anche i forestieri e rappresentanti dell’alta società che, in questa occasione, si recavano addirittura al mercato in abiti da sera per assistere a questo rito così caratteristico.
I luoghi del mercato del pesce
Fin dal medioevo il luogo sicuramente più importante a Roma per la vendita del pesce era il Portico d’Ottavia, dove veniva venduto su delle tavole marmoree di grandi dimensioni, affittate a caro prezzo dalle nobili famiglie romane. 
Tutti i pesci di dimensioni maggiori venivano privati della testa che, come ricorda anche un’iscrizione, divenivano di diritto di proprietà dei conservatori capitolini (consiglieri comunali del Papa in età medievale) che così usavano queste teste per le loro zuppe.
Altri mercati del pesce a Roma, agli inizi dell’800, erano al Pantheon, in via del panico e al Corso, ma l’opinione pubblica cominciava a ritenere poco compatibile la presenza dei banchi di vendita del pesce con una normale vita cittadina oltre che con la salvaguardia dei monumenti più illustri. 
Proprio per tutelare il decoro del Pantheon Pio VII (1800-1823) fece costruire, nel 1821, in via delle Coppelle, una nuova pescheria vietando nello stesso tempo che si vendesse pesce in altri luoghi. Rimanevano però ancora in vita i mercati di pesce storici più importanti, quello del Portico d’Ottavia e quelli delle due piazze de’ Monti e di Scossacavalli (quest’ultima scomparsa a seguito delle demolizioni per l’apertura di via della Conciliazione). 
Con l’unità d’Italia si decise di realizzare un mercato più moderno e funzionale. Si chiuse quindi definitivamente il mercato del pesce del Portico d’Ottavia e si aprì quello a piazza San Teodoro. Non solo il nuovo mercato era dotato di botteghe, di pulpiti per i banditori, di illuminazione notturna, di acqua e di una strada per il passaggio dei carri  oltre che di un sistema di innaffiamento teso a migliorare le condizioni igienico sanitarie., ma la sua ubicazione consentiva di evitare che la merce attraversasse la città perchè il pesce arrivava direttamente da Porta San Paolo e da Porta Portese.
Questo mercato fu chiuso nel 1927, quando fu trasferito ai nuovi mercati generali sulla Via Ostiense.  
In tutti questi spostamenti la tradizione del cottìo non si perse e continuò anche ai mercati generali dove potevano entrare anche privati cittadini per comprare e... gustare cartocci di pesce fritto offerto per l’occasione dai grossisti.


Dal 1927, invece, la “cerimonia” viene regolata da schemi più precisi, con il trasloco nella struttura di via Ostiense: i cancelli aprivano intorno alla mezzanotte, quando tutti avevano facoltà di accedere al mercato in vista di un risparmio sull’acquisto del pesce. E proprio per non scontentare nessuno i grossisti offrivano cartocciate di pesce fritto, quello meno pregiato, regalato a chi non poteva permettersi di partecipare all’asta.